C’è un giudice di pace che, a dispetto del suo nome, ha deciso di far la guerra a Conte. E la fa impartendo a tutti noi una lezione di diritto costituzionale di altissimo livello, lui che, per la vulgata corrente, è “solo” un giudice di pace.
Partiamo dai fatti. Un privato cittadino contesta una sanzione amministrativa della Polizia stradale comminata nell’aprile di quest’anno perché si era spostato dalla sua abitazione non ottemperando ad uno degli infiniti DPCM (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) con cui abbiamo dovuto convivere nei mesi scorsi insieme al Coronavirus. Il giudice di pace di Frosinone, l’avvocato Emilio Manganiello, con sentenza depositata il 29 luglio scorso, accoglie il ricorso per tre motivi.
In primis perché qualifica come illegittima la dichiarazione dello stato di emergenza emessa il 31 gennaio dal governo e i conseguenti DPCM dal momento che avrebbero violato gli artt. 95 e 78 della Costituzione. L’art. 78 stabilisce che «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari». Il giudice di pace argomenta che la nostra Costituzione prevede «una sola ipotesi di fattispecie attributiva al Governo di poteri normativi peculiari»: quando incorre lo stato di guerra. Sottolineiamo l’aggettivo “peculiare”, ossia poteri normativi straordinari in merito alle disposizioni (ad esempio: la limitazione della libertà personale) e all’estensione e intensità della forza normativa coercitiva, poteri che eccedono quelli ordinari di un comune decreto legge.
Nella Costituzione, continua il Nostro, non è prevista tale peculiare attribuzione per “rischio sanitario” nato da uno stato di emergenza. La Costituzione riconosce solo lo stato di guerra come condizione legittimante poteri normativi straordinari in capo al Governo. Tali poteri straordinari eccedono poi le competenze del Presidente del Consiglio previste dall’art. 95 della Costituzione.
In buona sostanza, la delibera del 31 gennaio del Consiglio dei Ministri che ha dichiarato lo stato di emergenza e i relativi DPCM sarebbero illegittimi perché espressione di una competenza normativa inesistente. Giuseppe Conte si sarebbe arrogato l’esercizio di un potere che non gli spetta.
Ma vi è un secondo motivo per censurare i DPCM, un motivo già abbastanza indagato anche dai media. I DPCM emanati sono uno strumento amministrativo che però hanno interessato una generalità di condotte relative ad un intero popolo. Ora queste due caratteristiche – generalità ed universalità – sono proprie delle leggi, non degli atti amministrativi che sono speciali e particolari. C’è chi obietta, ricorda il giudice, che i DPCM sono stati emanati dietro rinvio di appositi decreti legge.
Il giudice di pace replica in due modi. Primo: solo il decreto legge, emanato poi in stretta osservanza di una legge delega, ha forza di legge, non un DPCM che rimane uno strumento normativo di carattere amministrativo e mai potrà avere efficacia legislativa anche se emanato a seguito di decreto legge. Secondo: l’art. 76 della Costituzione, in particolari casi, affida la funzione legislativa al Governo, inteso in senso collegiale, non al solo Presidente del Consiglio.
Passiamo ad una terza critica articolata dall’avvocato Manganiello. Questa critica riguarda in modo particolare due DPCM impugnati dal privato cittadino di cui sopra. L’aspetto censurato fa riferimento all’obbligo di permanenza domiciliare. Il giudice fa presente che tale misura restrittiva della libertà personale può essere disposta, ex art. 13 della Costituzione, solo dall’autorità giudiziaria. «Pertanto – scrive il giudice – neppure una legge potrebbe prevedere nel nostro ordinamento l’obbligo della permanenza domiciliare, direttamente irrogato a tutti i cittadini dal legislatore, anziché dall’autorità giudiziaria con atto motivato, senza violare il ricordato art. 13 Cost.».
Da rimandare al mittente anche la seguente obiezione: i DPCM sono conformi al dettato costituzionale laddove questo prevede, ex art. 16, limitazioni alla libertà di movimento. Il giudice, ricordando una pronuncia della Corte Costituzionale (68/1964), chiarisce che tali limitazioni possono riguardare solo alcuni posti e non tutti i luoghi fuori dalla propria abitazione. In parole povere: una cosa è vietare di recarsi in alcune zone, un’altra è vietare addirittura di uscire di casa, perché in questo caso si passa dalla limitazione di movimento alla limitazione della libertà persona, che è ben altra cosa. «In sostanza – continua il giudice di pace – la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale. […] Quando […] il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone allora la limitazione si configura come limitazione della libertà personale. Certamente quando il divieto di spostamento è assoluto, come nella specie, in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale» e abbiamo visto che la limitazione della libertà personale può essere imposta solo da un giudice, non dal legislatore, non dal Governo, né tantomeno dal solo Presidente del Consiglio.
Il sempre più nostro giudice di pace poi non le manda di certo a dire e, al termine della sentenza, cesella un giudizio degno del miglior filosofo politico: «Del resto tali illegittime misure di sanità pubblica sono state recepite dal DPCM sul modello di quelle adottate in stati non democratici, come la Cina, che hanno un ordinamento costituzionale autoritario giuridicamente incompatibile con il nostro ordinamento costituzionale, fondato su garanzie individuali inviolabili, ignote agli ordinamenti ed agli esperti sanitari di quei paesi e del nostro, in quanto non competenti in diritto costituzionale [sic]».
Cosa aggiungere? Solo una cosa. Chapeau.
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Ma va cagher!!!
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