lunedì 18 marzo 2019

La Roche e la sua schiacciante responsabilità nel disastro di Seveso

Foto tratta da: https://www.vitadamamma.com/148417/seveso-disastro-ambientale.html


1945. Una nuova industria chimica nasce sul territorio.

Il 29 novembre 1945 l´ICMESA (Industrie Chimiche Meridionali S.A. con uffici e direzione a Milano) presentò al Corpo del Genio Civile di Milano domanda per l´autorizzazione a costruire un nuovo stabilimento per la produzione di farmaceutici in un terreno di sua proprietà ubicato nel territorio del Comune di Meda. L´ICMESA non era un´impresa di nuova costituzione. Le sue origini risalivano infatti al 1924 quando la società Industrie Chimiche K. Benger e C.S.A. (già Industrie Chimiche Meridionali K. Benger e C.) mutò la sua ragione sociale in quella di Industrie Chimiche Meridionali S.A. ICMESA. La sede e lo stabilimento della fabbrica erano a Napoli e l´attività si fondava sulla fabbricazione e sul commercio di prodotti aromatici sintetici, di prodotti intermedi (per l´industria farmaceutica e per quella dei coloranti organici) e di prodotti di base per l´industria chimica.
Nel 1947 l´assemblea degli azionisti, pur mantenendo la sede sociale a Milano, deliberò di modificare la denominazione della società, trasformandola in ICMESA S.A., Industrie Chimiche Meda, Società Azionaria. Sempre nel 1947, terminati i lavori di costruzione della fabbrica, l´ICMESA iniziò concretamente la propria attività a Meda.
Gli anni cinquanta e sessanta videro le dimensioni della fabbrica ampliarsi costantemente. La Givaudan & C. di Vernier-Ginevra rimase sempre la principale azionista della società.
Nel 1963 la multinazionale Hoffman-La Roche, con sede a Basilea, acquistò la L. Givaudan & C. e conseguentemente, prima attraverso la Givaudan e poi figurando in prima persona fra gli azionisti, divenne proprietaria dell´ICMESA.

1948-1976. Una fabbrica e l’abitudine ai suoi veleni.

Già dal 1948 l´ICMESA aveva sollevato le proteste della popolazione di Seveso in merito ai gas e agli odori provenienti dal torrente Certesa (o Tarò) che erano da attribuirsi anche agli scarichi della fabbrica di Meda.
L´anno successivo il Consiglio Comunale di Seveso si occupò della questione delle acque che venivano immesse nel torrente non convenientemente depurate da parte dell´ICMESA e che diffondevano “odori nauseabondi ed insopportabili nell´atmosfera”.
I consiglieri rilevarono le continue lamentele della cittadinanza e le fecero proprie poiché in talune zone del territorio comunale l´aria diventava “assolutamente irrespirabile per le esalazioni provenienti dalle acque di deflusso dello stabilimento della società ICMESA di Meda”.
Per questo il Consiglio Comunale invitò il sindaco ad accertare la nocività dei gas emanati dall´ICMESA e, di concerto con il collega di Meda, ad attivarsi per inoltrare una protesta alle “superiori autorità” al fine di obbligare la società ad eseguire quelle opere che si rendevano necessarie per eliminare i gravi inconvenienti igienici rilevati.
Dopo pochi anni, il 2 maggio 1953, l´ufficio veterinario del Comune di Seveso accertò un´intossicazione di pecore a causa degli scarichi dell´ICMESA. Recatosi alla fabbrica “anche allo scopo di avere elementi necessari sui quali indirizzare la cura delle pecore colpite e non ancora decedute”, il veterinario consorziale Malgarini non ottenne alcun chiarimento in merito, per la “reticenza” del rappresentante dello stabilimento di Meda.
Un paio di mesi dopo, il 1° luglio 1953, l´ufficiale sanitario Del Campo, comunicò al sindaco del Comune di Meda che “un increscioso episodio tossico con la morte di 13 pecore” si era verificato nel torrente Certesa “subito a valle dello scarico delle acque di rifiuto della fabbrica ICMESA”. Nella sua relazione l´ufficiale sanitario, dopo aver evidenziato che l´ICMESA produceva prodotti delle serie “acetati, salicitati e alcoli”, appurò la nocività delle acque del Certesa, causata dallo scarico della fabbrica. Per queste ragioni Del Campo ritenne che ci fossero “tutti gli estremi” per qualificare la fabbrica di Meda come “Industria Insalubre”.
Dopo pochi giorni, il 7 luglio 1953, l´ICMESA, con una lunga nota a firma dell´amministratore delegato Rezzonico, affermò di non trovarsi d´accordo con quanto asserito dall´ufficiale sanitario e respinse la responsabilità della morte delle 13 pecore. La società poi non accettò la possibilità di essere classificata come “Industria Insalubre” ed evidenziò il fatto che anche le acque a monte dello stabilimento emanavano esalazioni moleste.
L´ICMESA si impegnò infine a migliorare gli strumenti per l´eliminazione di odori e rumori molesti sperando che l´episodio non alimentasse intorno allo stabilimento ed alla sua attività “quell´atmosfera di diffidenza e di critica” che, sempre secondo la direzione aziendale, non trovava nessuna ragione nei fatti “visti obbiettivamente e serenamente”.
Il 28 agosto 1953 l´ICMESA ribadì le proprie posizioni considerando altresì “assurde” le accuse mosse a un´industria che lavorava “onestamente ed in condizione di ambiente e di sanità fra le più moderne d´Italia”.
Il sindaco invitò la ditta ad adottare le necessarie cautele nel bruciare i rifiuti per evitare gli inconvenienti igienici lamentati dalla popolazione.
Il 14 maggio 1962 l´ICMESA, ancora una volta, rigettò le accuse limitando l´episodio ad un solo incendio, sviluppatosi per ragioni ignote e prontamente spento dopo tre quarti d´ora. Comunque la società assicurò il massimo delle precauzioni per evitare altri inconvenienti del genere.
Dopo quasi un anno, il 7 maggio 1963, il sindaco di Meda chiamò nuovamente in causa l´ICMESA in merito ad un nuovo incendio di scorie e rifiuti di lavorazioni abbandonati sul terreno, non recintato, di proprietà della società sottolineando il panico originato nella popolazione e il grave pericolo per la ferrovia e la viabilità. L´ICMESA venne altresì invitata a provvedere per evitare nuovi episodi di quel genere e le fu ricordato che le scorie e i rifiuti non andavano abbandonati sul terreno, ma “distrutti con procedimenti tali da salvaguardare l´incolumità pubblica o privata”.
L´11 maggio 1963 la nuova replica dell´ICMESA scaricò la responsabilità di questo secondo incendio su dei pastori che si erano fermati nei pressi dello stabilimento e, dopo aver acceso un fuoco, erano scappati. La società assicurò che avrebbe provveduto con maggiore frequenza che non nel passato a ricoprire le scorie con della terra di riporto, per evitare il ripetersi dell´inconveniente. Infine l´ICMESA evidenziò che la località era comunque isolata e sufficientemente distanziata tanto dalla parte della ferrovia che da quella dello stabilimento e che pertanto non potevano esserci preoccupazioni per la popolazione. Su sollecito del sindaco, il 25 maggio 1963 l´ICMESA si impegnò anche alla recinzione del deposito delle scorie a nord dello stabilimento.
Il problema dell´inquinamento del torrente Tarò fu sempre al centro dell´attenzione della Provincia in quanto, nuovamente nel 1965, le analisi effettuate rilevarono la non accettabilità delle acque sia dal punto di vista chimico, perché altamente inquinate, sia dal punto di vista biologico giacché definite “tossiche ad alta tossicità”. Necessitava dunque un miglioramento dell´impianto di depurazione che fu imposto all´ICMESA nel novembre del 1965. Un sopralluogo effettuato nel 1966 appurò che, nonostante le modifiche apportate, l´impianto continuava a non dare risultati soddisfacenti.
Il 18 ottobre 1969 pervenne al Comune di Meda l´ennesima relazione del Laboratorio di igiene e profilassi della Provincia:

“Ripetuti sopralluoghi effettuati sia all´interno che all´esterno dello stabilimento Icmesa di Meda, portano a concludere che la situazione degli scarichi della ditta in oggetto va rivista alla luce di risultanze e accertamenti nuovi, più gravi e più complessi di quelli finora presi in considerazione, in quanto gli inquinamenti dovuti alle sue lavorazioni non sono limitati agli affluenti idrici, e quindi di natura primaria e immediata, ma si estendono e si moltiplicano con gli inconvenienti che possono derivare dalle sconosciute evacuazioni, in bacini perdenti esterni allo stabilimento, di sostanze solide, mucillaginose e liquide di natura diversa e imprecisata e dalla combustione in campo aperto, primitiva e incontrollata di prodotti di varia natura […]. Tali operazioni, in aggiunta ai molteplici odori nauseabondi, insistenti e persistenti, che investono un raggio di alcune centinaia di metri e si accompagnano pervicacemente ai sensi e agli indumenti del visitatore per alcuni giorni, rappresentano infatti un pericolo continuo e costante per le falde acquifere e per lo stesso torrente Tarò che scorre a poche decine di metri […]. E´ pertanto con viva preoccupazione che questo Laboratorio segnala una tal situazione, stigmatizzando l´assoluta mancanza di cautele e previdenze che la ditta aveva ed ha il dovere di osservare in ossequio al bene pubblico e ad un elementare buon senso. Brutture del genere, accertabili e visibili per gli occhi di tutti, non possono essere tollerate, né le ditta può pretendere che il tempo passi e la natura provveda.

Il 18 dicembre 1969 l´ufficiale sanitario Sergi, facendo riferimento al rapporto del 18 ottobre, affermò che l´ICMESA rappresentava “una notevole grave sorgente per l´inquinamento” sia liquido che gassoso. Sergi asserì inoltre che “l´azione malefica di tale inquinamento” non si limitava alla zona circostante lo stabilimento, ma attraverso la falda acquifera superficiale, l´atmosfera e a mezzo del torrente Tarò, questa si estendeva “a zone anche lontane dalla sorgente inquinante”. “Data la gravità delle risultanze premenzionate” l´ufficiale sanitario chiese al sindaco di Meda di emettere un´ordinanza “ai sensi dell´art. 217 del T.U.LL.SS. 27.7.1934, n. 1265″ con la quale si doveva imporre all´ICMESA “l´adozione di provvedimenti efficaci, stabili e continuativi, atti a rimuovere (o almeno a ridurre al minimo tollerabile) i molteplici inconvenienti constatati”.
All´inizio del 1974 l´ICMESA assicurò nuovamente la Provincia di Milano e l´Ufficio del Genio Civile rispetto all´imminente inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo impianto di depurazione delle acque, che però di fatto non si avviarono mai, come testimonia una nuova analisi effettuata dalla Provincia il 2 dicembre 1974 che giunse alle seguenti conclusioni:

“Le acque usate che la ICMESA immette nel Tarò sono inquinate dal lato chimico ed a tossicità altissima estrema da quello ittico-tossicologico. Sono urgenti pertanto specifici ed efficienti lavori di bonifica. La ditta inoltre deve provvedere a dare una sistemazione più confacente ai fanghi che, attualmente, per percolazione, possono inquinare le falde sotterranee”.

Alla fine del 1974 il direttore tecnico dell´ICMESA, Herwig Von Zwehl, fu denunciato alla magistratura per “avere con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso corroso ed adulterato acque sotterranee destinate alla alimentazione prima che le stesse fossero attinte, rendendole pericolose per la salute pubblica, tramite lo scarico di fanghi in una pozza perdente.”
Il 5 settembre 1975, a seguito di un nuovo sopralluogo, la Provincia confermò le accuse di inquinamento delle acque sotterranee nei confronti della fabbrica di Meda. Nonostante il rapporto della Provincia, il 15 giugno 1976 Herwig Von Zwehl fu assolto per “insufficienza di prova”.

10 luglio 1976, sabato. A Seveso c’era il sole.

Era una domenica pomeriggio. L´11 luglio 1976. Il sindaco di Seveso, Francesco Rocca, ricevette la visita di due tecnici dell´ICMESA. I due tecnici gli riferirono di un incidente successo il 10 luglio all´interno della fabbrica. Ricorda Rocca:

La descrizione fu breve, più che altro tecnica, di ciò che era avvenuto. Per la prima volta sentii parlare di “triclorofenolo”, il tcf. “E´ un prodotto chimico intermedio di base” mi spiegò subito il dr. Paoletti. “Lo può trovare anche dal droghiere, serve anche per i diserbanti. E proprio il reattore che lo produce è scoppiato. Non si sa bene perché. Ieri mattina alle sei è cessato il turno e come ogni sabato hanno lasciato raffreddare il reattore. Domani la produzione di tcf sarebbe ripresa regolarmente, se non fosse avvenuta questa reazione incontrollata all´interno, che lentamente ha fatto alzare la temperatura e la pressione, finché poco dopo mezzogiorno è avvenuto lo scoppio”.

Il 12 luglio 1976 la direzione della fabbrica scrisse all´ufficiale sanitario supplente dottor Uberti, che sostituiva il titolare, professor Ghetti, in ferie:

Facendo riferimento alle precedenti informazioni e colloqui e alla vostra visita odierna, vi confermiamo quanto segue: Sabato 10 luglio 76 alle ore 12.40 ca. si è verificato all´interno del nostro Stabilimento un incidente.
Vi precisiamo che la fabbrica era ferma per la normale giornata di sosta del sabato con la presenza soltanto di personale di manutenzione e lavori vari, che non interessavano il reparto in questione.
Le cause dell´incidente sono tuttora all´esame e al vaglio. Per ora possiamo supporre che la dinamica dei fatti sia avvenuta per una inspiegabile reazione chimica esotermica in un reattore lasciato in una fase di raffreddamento. Nel reattore si trovavano le materie seguenti: tetraclorobenzolo, etilenglicole e soda caustica che portano alla formazione di triclorofenolo grezzo.

Alla fine del normale orario di lavoro (alle ore 06.00 del sabato) il reattore è stato lasciato fermo senza agitazione e riscaldamento, come di consueto, contenente il prodotto grezzo.
Non sappiamo cosa possa essere successo fino alle ore 12.40, momento in cui si è rotto il disco di sicurezza, lasciando fuoriuscire una nube di vapori che, dopo aver investito le piante all´interno del nostro Stabilimento, si è diretta verso sud-est, spinta dal vento e dissolvendosi nel giro di breve tempo. Non essendo in grado di valutare le sostanze trascinate da questi vapori ed il loro esatto effetto, abbiamo provveduto ad intervenire presso i vicini per impedire il consumo di eventuali prodotti d´orto, sapendo che il prodotto finito viene anche impiegato in sostanze erbicide. Per il momento abbiamo sospeso questa lavorazione, concentrando le nostre ricerche nella spiegazione di quanto accaduto, per evitare casi analoghi nel futuro.

Il direttore tecnico della Givaudan, dottor Sambeth, avuta notizia dell´incidente il successivo 11 luglio alle ore 11.45, ipotizzò la possibilità che si fosse prodotta TCDD.
La certezza scientifica della fuoriuscita di TCDD fu confermata il 14 luglio dalle analisi compiute nel laboratorio della Givaudan a Duebendorf (Zurigo) su materiale prelevato nell´ambiente circostante l´ICMESA. Anche dopo la conferma dei sospetti iniziali, sia i responsabili dell´ICMESA che quelli della Givaudan non dettero alcuna comunicazione della circostanza alle autorità italiane. Solo otto giorni dopo, il 18 luglio, allorché il direttore del Laboratorio chimico provinciale di Milano prospettò ai responsabili della fabbrica di Meda la possibilità della presenza di diossina, fu preannunciato l´arrivo in Italia del direttore del Laboratorio della Givaudan e solamente il 19 luglio 1976, l´ICMESA e la Givaudan si decisero ad ammettere la gravità della situazione, dichiarando ufficialmente la presenza di tetraclorodibenzo-para-diossina tra le altre sostanze altamente tossiche. Invece soltanto il 21 luglio 1976 il direttore del Laboratorio provinciale di igiene e profilassi, Cavallaro, e l´ufficiale sanitario di Seveso, Ghetti, dai Laboratori Givaudan di Duebendorf, confermarono al sindaco di Seveso la presenza di diossina nella nube tossica fuoriuscita il 10 luglio.
Nei “giorni del silenzio”, ovvero nei cinque giorni che passarono tra la fuoriuscita della nube ed i primi provvedimenti presi dai sindaci di Seveso e di Meda, si delineò con maggiore precisione la dinamica dell´incidente. I carabinieri di Meda infatti, nell´ambito dell´attività di polizia giudiziaria, confermarono che la nube si era formata a causa della rottura del disco di sicurezza del reattore “A 101″ e ciò per effetto di una reazione chimica esotermica. La rottura del disco causò lo scarico violento di particelle di vapori di glicole e di particelle varie, attraverso il tubo di sfiato.
La diffusione di particelle avvenne essenzialmente nei primi istanti e, complessivamente, durante le tre fasi dell´incidente fuoriuscirono circa 400 kg di prodotti di reazione e reattivi. La nube tossica comprendeva tra l´altro triclorofenolo, soda caustica e il 3,5% di diossina, pari quindi a 14 kg. Lo scarico fu trascinato dal vento che lo portò con sé lungo il suo percorso in direzione sud, sud-est. Come rilevato dalle stazioni meteorologiche di Carate Brianza e Como, quando avvenne l´incidente, il vento soffiava alla velocità di circa 5m/s.
Ancora il 18 luglio, quando il sindaco di Meda ordinò a scopo cautelativo la chiusura della fabbrica, la direzione cercò di assicurare le autorità sostenendo la non pericolosità dello svolgimento dell´attività lavorativa.

15 luglio 1976, giovedì. I primi provvedimenti.

Dopo le prime verifiche effettuate il 12 luglio, nel corso delle quali l´ufficiale sanitario supplente non aveva rilevato alcun danno alle persone ma solo la bruciatura delle piante investite dalla nube, il 15 luglio Uberti accertò i numerosi casi di intossicazione e raccomandò alle autorità di prendere urgentemente “immediati provvedimenti per tutelare la salute della popolazione”. I sindaci dei due comuni dovevano:
  1. Delimitare la zona con paletti recanti come testo la seguente dicitura: “Comuni di Seveso e Meda. Attenzione. Zona infestata da sostanze tossiche. Divieto toccare o ingerire prodotti ortofrutticoli, evitando contatti con vegetazione, terra ed erbe in genere”.
  2. Avvisare, mediante manifesto la popolazione di non toccare assolutamente né ortaggi, né terra, né erba, né animali della zona delimitata e di mantenere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti, usando l´acqua come migliore detergente.
In attesa di ulteriori comunicazioni “da parte dei laboratori della ditta ICMESA”, su come agire e sulle eventuali norme di profilassi da prescrivere, l´ufficiale sanitario supplente si riservava di ordinare l´evacuazione della zona interessata.
Lo stesso giorno della comunicazione di Uberti, i sindaci di Seveso e Meda dichiararono la zona del quartiere di San Pietro limitrofa all´ICMESA infestata da sostanze tossiche e, recependo quanto prescritto dall´ufficiale sanitario, vietarono alla popolazione di toccare ortaggi, terra, erba e animali della zona delimitata e prescrissero di mantenere la più scrupolosa igiene delle mani e dei vestiti.

17 luglio 1976, sabato. Dopo ‘la settimana del silenzio’ l’incidente diventa notizia.

Intanto, la notizia della fuoriuscita della nube tossica stava diventando di dominio pubblico. Rocca infatti, il 15 luglio, si era premurato, di informare il cronista de “Il Giorno” Mario Galimberti e il 17 luglio il quotidiano milanese pubblicò un articolo nella pagina della cronaca della provincia. Lo stesso giorno anche sul “Corriere della Sera” apparve una breve nota che riportava i primi dettagli dell´incidente.
Dopo la chiusura dell´ICMESA, avvenuta il 18 luglio, il giorno successivo il sindaco di Meda ordinò la chiusura a scopo cautelativo e provvisorio della ditta C.R.C.-Encol, sita nelle vicinanze della fabbrica chimica, mentre il sindaco di Seveso ordinò alla popolazione di non ingerire prodotti di origine animale provenienti dalla zona inquinata o comunque sospetti di inquinamento.
Il 22 luglio, mentre si aggravava la situazione con il progressivo instaurarsi di fenomeni patologici e l´intensa moria di animali, si iniziò il censimento degli animali della zona inquinata. Fu inoltre deciso di inviare 80 bambini in colonia e fu aperto a Seveso un ambulatorio con personale messo a disposizione dalla Clinica dermatologica dell´Università di Milano. Anche il giorno successivo fu dedicato all´organizzazione delle strutture sanitarie di verifica e controllo della situazione con l´affidamento all´Istituto di fitopatologia del controllo sulla vegetazione per delimitare la zona inquinata e l´affidamento al veterinario regionale degli esami sugli animali morti. Venne altresì assegnato al professor Ghetti il Laboratorio clinico aperto a Seveso e il Laboratorio di igiene e profilassi della provincia fu incaricato di effettuare gli esami necessari per conoscere con sicurezza gli aspetti chimici della contaminazione. 
 

Le prime ammissioni.

Il 23 luglio infine, dopo una riunione a Lugano, sulla base degli ultimi risultati delle analisi sulla contaminazione della zona e visti anche i rapporti relativi ad altri incidenti accaduti in precedenza in Inghilterra e in Germania, i responsabili dell´ICMESA, d´accordo con il dottor Vaterlaus, capo dei Laboratori di ricerca Givaudan, presentarono all´ufficiale sanitario le loro conclusioni e raccomandazioni, dove evidenziarono quanto segue:
  1. La quantità a cui le popolazioni di Meda e Seveso hanno potuto essere esposte appaiono inferiori rispetto ai casi d´intossicazione conosciuti negli altri incidenti sopravvenuti in altri casi.
  2. I sintomi clinici di cui abbiamo conoscenza delle persone ricoverate in ospedale a Niguarda e Mariano Comense corrispondono esattamente piuttosto a degli effetti moderati, paragonati ai sintomi clinici osservati negli altri casi d´incidente citati. […]
  3. Ricordiamo che il programma delle analisi è stato avviato subito dopo l´incidente ed ha indicato, nell´immediata prossimità del luogo ove l´incidente si è verificato, una certa contaminazione. Vista la complessità della procedura di analisi, un discreto lasso di tempo è tuttavia intercorso tra il prelevamento dei campioni e l´ottenimento dei risultati.
  4. L´informazione che abbiamo potuto ottenere sullo sviluppo e il seguito degli incidenti precedenti del genere, indica inoltre che i contatti diretti della sostanza tossica sulla pelle possono comportare pericoli.
Dopo aver esposto le proprie conclusioni, “nell´intenzione di evitare tutte le possibilità di contatto” che potevano ancora esistere nella zona e al fine di “consentire l´esecuzione dei programmi di decontaminazione”, l´ICMESA propose di adottare misure precauzionali che prevedevano “l´evacuazione temporanea della zona interessata e delimitata sulla planimetria allegata (punti di misura rossi e blu)” finché ulteriori studi non permettessero “senza alcun ragionevole dubbio la reintegrazione delle abitazioni”. I residenti della zona da evacuare dovevano inoltre evitare “di portare con sé tutti gli oggetti personali, specialmente i vestiti”, di cui si presumeva “la possibilità di contaminazione”.
Sempre secondo l´ICMESA, le autorità avrebbero dovuto, da una parte assicurare un rigoroso controllo affinché nessun prodotto vegetale venisse consumato “sia dagli uomini che dagli animali domestici”, dall´altra “mantenere un programma di sorveglianza medica sulle persone ricoverate nel corso di molti mesi” e “adottare un programma di controllo medico della popolazione” che avrebbe potuto entrare in contatto con la zona di contaminazione, anche se non si era manifestato alcun sintomo visibile.

26 luglio 1976, lunedì. La prima evacuazione. Nasce la ‘Zona A’.

Solo venerdì 24 luglio, quattordici giorni dopo la fuoriuscita della nube tossica, la verifica incrociata delle analisi effettuate dalle strutture sanitarie italiane con quelle dei Laboratori Givaudan confermò una presenza notevole di TCDD nella zona maggiormente colpita dalla nube tossica. L´area fu estesa, con inizio dalla fabbrica, verso sud per una superficie di circa 15 ettari e per una profondità di circa 750 metri. Inoltre si decise di evacuare la popolazione, di recintare la zona e vietarne l´accesso. Nacque così la Zona “A”.
Con le ordinanze numero 48 e numero 6 del 24 luglio, i sindaci di Seveso e di Meda imposero, entro il successivo lunedì 26 luglio, l´evacuazione dalla zona inquinata con conseguente trasferimento delle famiglie interessate per il periodo strettamente necessario per effettuare le operazioni di bonifica. Rocca e Malgrati vietarono altresì di asportare dalle abitazioni utensili di qualsiasi genere e di portare con sé animali da cortile alla cui alimentazione avrebbe provveduto il personale degli uffici veterinari.

L’evacuazione si estende.

Lunedì 26 luglio, a cura dei due Comuni e con la collaborazione delle forze dell´ordine, furono allontanate 213 persone (176 di Seveso e 37 di Meda) e collocate prevalentemente presso l´albergo “Leonardo da Vinci” di Milano-Bruzzano. Scrisse il “Corriere della Sera”:

Duecento persone sono da ieri mattina dietro il filo spinato steso attorno al quartiere San Pietro dai soldati del 3° artiglieria a cavallo. L´autocolonna militare è arrivata davanti al municipio di Seveso alle otto e mezzo di mattina. Guidati dai tecnici del comune i soldati hanno raggiunto quella che sulle carte è segnata come zona A, un´area di 15 ettari che risulta essere quella maggiormente contaminata. Sotto una pioggia battente gli uomini hanno iniziato a stendere i reticolati doppi di filo spinato, piazzato i cavalli di frisia per sbarrare le vie di accesso al quartiere, piantato nel terreno i paletti di recinzione.

Il giorno dopo il Comune di Seveso si trovò costretto, a causa “dell´aggravarsi della situazione”, a provvedere all´evacuazione di altre 19 persone, di cui 3 bambini, prontamente inviati presso la colonia medico-psico-pedagogica di Cannobbio. Nel frattempo venne prevista l´evacuazione di altri 114 nuclei familiari, corrispondenti a 398 persone, di cui 86 bambini. I risultati degli ulteriori esami di laboratorio avevano infatti consigliato alle autorità sanitarie regionali di ampliare la Zona “A”, la cui profondità fu portata a circa 1600 metri.
Nei giorni successivi le analisi indussero ad un secondo ampliamento della Zona “A”, con un aumento della profondità a 2200 metri. Anche questo allargamento comportò la decisione di procedere ad una ulteriore evacuazione. Complessivamente furono allontanate 736 persone (676 di Seveso e 60 di Meda) per un totale di 204 famiglie e la zona evacuata e recintata interessò una superficie di 108 ettari, con uno sviluppo perimetrale di 6 chilometri. Una azienda agricola, 37 imprese artigiane, 10 esercizi commerciali e 3 industrie furono costrette a sospendere l´attività per un totale di 252 addetti.
Il primo bilancio relativo agli animali morti, abbattuti o usati per esperimenti ammontò a 2.953. La moria di animali fu continua e comprese non solo gli animali domestici. Furono trovati morti nei campi anche fagiani, quaglie, lucherini, cardellini, rondini e passeri. Ricorda Angelo C. che abitava nella zona:

“Non ho più visto rondini e quando non si vedono più rondini è brutta, perché è veramente successo qualcosa e quando è venuta fuori la diossina di rondini non se ne sono viste più, sparite tutte”.

Un brigadiere della polizia zoofila di Milano affermò che tra gli animali domestici i cani e i gatti erano quelli che facevano la fine più impressionante: o si spegnevano adagio perdendo lentamente le forze, oppure sembravano impazzire. I gatti miagolavano in continuazione, i cani diventavano aggressivi, nervosi, inavvicinabili.

La Mappatura dei divieti.

Nei giorni seguenti la mappatura “ufficiale” della zona assunse la sua conformazione definitiva, con l´indicazione di una zona a minor tasso di inquinamento (Zona “B”) che interessò anche i Comuni di Cesano Maderno e Desio per una superficie di 269,4 ettari con uno sviluppo perimetrale di 16,5 chilometri e una terza zona (Zona “R” o “di Rispetto” ) non inquinata o inquinata con valori inferiori ai 5µg/m² che interessò una superficie di 1430 ettari con uno sviluppo perimetrale di 26 chilometri.
La mappatura della zona fu elaborata in prima stesura il 10 agosto dalla Commissione tecnico-scientifica statale e definitivamente approvata dal Consiglio regionale lombardo il 7 ottobre 1976.
Nel mese di agosto i sindaci di Seveso e Meda emanarono una nuova serie di prescrizioni per gli abitanti delle zone “A” (evacuati), “B” e “di Rispetto”.
In particolare il sindaco di Seveso il 24 agosto, mentre limitò l´accesso alla Zona “A” “esclusivamente su autorizzazione”, vietò per la Zona “B” ogni lavorazione che provocasse “movimento di terreno e sollevamento di polvere” e qualunque manipolazione dei materiali che giacevano all´aperto al momento dell´incidente. La velocità dei veicoli sulle strade non asfaltate non doveva superare i 30 km/h, era proibito “coltivare o raccogliere foraggio, erba, fiori, frutta, verdura, ortaggi, nonché allevare animali tranne quelli di affezione” e dovevano essere distrutti “tutti i prodotti zootecnici di origine animale (latte, uova, miele, ecc.)”. Nella Zona “B” fu infine vietata ogni attività artigianale ed industriale.
Oltre ai divieti enunciati, il sindaco invitò la popolazione della Zona “B” ad osservare accuratamente una serie di indicazioni come “lavare immediatamente ed a lungo le mani” qualora si fossero toccati oggetti presumibilmente inquinati e “comunque lavarle frequentemente durante la giornata per eliminare ogni traccia di sostanza tossica eventualmente presente, sia pure in piccole quantità nella polvere”. Venne poi consigliata una frequente ed accurata pulizia di tutto il corpo (bagno o doccia tutti i giorni) con l´uso di sapone. Fu invece scoraggiata l´esposizione alla luce solare per periodi prolungati e fu definita “altamente pericolosa” l´ingestione di qualunque alimento animale o vegetale proveniente dalle zone inquinate. Infine era prudente che “tutte le persone esposte al rischio della contaminazione” si astenessero dalla procreazione per un periodo di tempo che “cautelativamente” poteva essere indicato in sei mesi. Non si poteva escludere infatti, “anche se non era ancora dimostrata per la specie umana”, la comparsa di malformazioni nei figli concepiti da persone esposte a diossina.
Allo scopo di mettere a disposizione delle persone interessate tutte le informazioni necessarie il sindaco ricordò la presenza del Consultorio familiare, aperto a Seveso tutti i giorni dal lunedì al venerdì presso le scuole medie.
Per gli abitanti della Zona “di Rispetto”, con l´ordinanza del 24 agosto, Rocca riconfermò quanto prescritto il precedente 18 agosto e cioè l´obbligo di intensificazione da parte della popolazione delle norme di igiene personale, il divieto di consumare e vendere frutta, verdura e altri vegetali prodotti nella stessa Zona “di Rispetto” e l´obbligo di abbattimento di tutti gli animali da cortile con il conseguente divieto di allevamento degli stessi. Nell´ordinanza il sindaco si premurò di precisare che la fascia di sicurezza era stata attuata solo per rafforzare i provvedimenti igienico sanitari. Gli accertamenti eseguiti non avevano “riscontrato la presenza di diossina” e pertanto le norme indicate dovevano intendersi solo di carattere cautelativo e date nell´interesse dei cittadini.

I mesi successivi.

L´11 ottobre 1976 un gruppo di sfollati della Zona “A” rioccupò pacificamente parte della zona inquinata e bloccò temporaneamente la superstrada Milano-Meda. I dimostranti chiedevano alle autorità di bonificare immediatamente il territorio, di rientrare al più presto nelle abitazioni e di riaprire al traffico il corso Isonzo, per permettere il collegamento diretto con il centro di Seveso. Dopo estenuanti trattative, solo a tarda sera gli occupanti decisero di abbandonare la zona inquinata, con la promessa da parte delle autorità di aprire subito una via di comunicazione tra Baruccana e Seveso e di studiare un sistema con i rappresentanti degli sfollati per bloccare la superstrada fino a bonifica avvenuta.
Un altro motivo di contrasto tra l´organo regionale e la popolazione di Seveso fu la scelta di privilegiare, tra le varie ipotesi per effettuare la bonifica del territorio, la costruzione di un forno inceneritore per eliminare la diossina. Alla fine di agosto la Regione aveva chiesto al Comune di Seveso di esprimere un parere in merito alla collocazione nel territorio sevesino di un impianto di incenerimento che avrebbe occupato un´area di 36.000 m². Il Consiglio Comunale, con una sola astensione, determinò di collocare il forno in una zona ubicata a nord del cimitero.
Questa decisione fu contestata dalla popolazione a tal punto che il Consiglio Comunale di Seveso, il 14 novembre, decise di abrogare la propria deliberazione del 29 agosto e di chiedere alla Regione Lombardia e alla Provincia di Milano di sospendere l´appalto per la costruzione del forno inceneritore e di accogliere la proposta di bonifica del “Comitato di coordinamento cittadino”. Quest´ultimo aveva suggerito il metodo dello scarico controllato, cioè di risolvere il problema con il collocamento del materiale inquinato in cassoni di cemento armato, stagni, antisismici e totalmente o parzialmente incassati nel terreno, coperti di terra e di verde. Secondo la proposta del comitato i cassoni avrebbero dovuto essere collocati sul terreno dell´ICMESA.
Tutto ciò contribuì ad acuire quel senso di sfiducia nei confronti della Regione che già era emerso nei primi giorni dopo l´incidente e che costrinse l´organo regionale a “rassicurare” gli abitanti di Seveso circa la propria attività. A novembre apparve sui muri del paese un manifesto a firma di Golfari, il presidente della Giunta Regionale della Lombardia, che si concludeva così:
Cittadini di Seveso! Per evitare confusione di notizie vi terremo periodicamente informati con manifesti. La Regione, infatti, è l´unica autorità che può dirvi come stanno realmente le cose. Mentre noi contiamo sul vostro senso di responsabilità, voi potete contare sempre sul nostro impegno e sulla nostra solidarietà.
Nel mese di dicembre del 1976 si rinnovò la protesta della popolazione contro l´inerzia della Regione e della Provincia con un nuovo blocco della superstrada Milano-Meda. I motivi della protesta ricalcarono quelli della precedente manifestazione di ottobre e si concentrarono contro l´installazione del forno inceneritore e a favore della riapertura del corso Isonzo.
Questa ennesima protesta dei cittadini di Seveso comportò una durissima presa di posizione di Golfari che dichiarò al “Corriere della Sera”:
In questa faccenda della diossina, finora siamo andati alla ricerca del consenso, ci siamo sforzati di stimolare la partecipazione. Fin troppo. Adesso però bisogna prendere decisioni definitive con o senza il consenso della popolazione. Tutta questa storia è ormai avvelenata dall´ideologia e l´ideologia con la diossina ha poco a che vedere. Adesso basta: i programmi sono stati definiti e non intendo più riaprirli. Farò eseguire la bonifica anche a costo di ricorrere alla forza pubblica.
Più oltre Golfari rilevò poi che dai manifesti di protesta della gente di Seveso era scomparso il nome dell´ICMESA e dalla Givaudan e appariva sempre solo la Regione, “con strane convergenze, come per esempio, l´acquisto delle case contaminate trattato direttamente dalla Givaudan con gli avvocati dei sindacati”. Concluse Golfari:
La disgrazia di Seveso è un evento pubblico, non può essere privatizzato. La Givaudan deve venire qui, in Regione e trattare con noi, accordarsi con noi. Certamente tutta la questione è complessa i problemi e le direzioni in cui muoversi sono mille. Però bisogna stare bene attenti e non lasciare spazio per le speculazioni. E in questa faccenda ci sono linee traverse, interessi disparati che si intrecciano, confondono i giochi e che non so neanch´io dove vadano a parare.
Sembra quasi che siamo stati Rivolta ed io ad uccidere le mucche del seminario, che hanno avuto il fegato spaccato dalla diossina, o a bruciare la faccia dei bambini ricoverati. Sembra quasi che la diossina l´abbia sparsa la Regione Lombardia e non l´ICMESA. Ora io non so se la Givaudan abbia avuto una parte attiva in questo gioco delle tre tavolette. Di certo so che la Givaudan intasca gli utili della scemenza altrui.

1977. La sfiducia aumenta.

Il 17 gennaio 1977 la Regione Lombardia approvò la legge n. 2 che, secondo quanto prescritto dalla disposizione che aveva convertito il decreto legge dell´agosto 1976, definì i programmi operativi di intervento da sottoporre all´approvazione del Consiglio Regionale e introdusse procedure semplificate in materia di urbanistica, contabilità, assunzione di personale e controllo sugli atti. Ciascun programma operativo doveva determinare gli obiettivi specifici da raggiungere, le competenze dei vari enti rispetto agli interventi da effettuare nell´ambito del programma operativo stesso, i tempi di attuazione di ciascun intervento e l´ammontare delle somme destinate ai singoli interventi.
Mentre la struttura regionale si stava organizzando anche a livello legislativo, nei primi mesi del 1977 le autorità dovettero affrontare il problema degli ingressi abusivi nella zona inquinata da parte degli sfollati, situazione che si ripeteva ormai da molti mesi. Tra il settembre del 1976 e il febbraio del 1977 gli organi preposti al controllo della Zona “A” denunciarono infatti più volte la presenza di persone non autorizzate. In un rapporto della polizia municipale di Seveso datato 1° ottobre 1976 si segnalava che:
la sig.ra O. Lina era intenta a stirare nella propria abitazione, asserendo che erano diversi giorni che dimorava giorno e notte, non ottemperando in tal modo, all´ordinanza emessa dal Sindaco di Seveso in data 30/7/76 portante il n. 51 in riferimento al noto evento tossico. Dopo innumerevoli inviti veniva convinta a lasciare la dimora senza asportare da essa nessun effetto ivi depositato quanto meno effetti personali, in quanto all´atto dell´ispezione la O. non era protetta da nessun indumento idoneo anti-tossico e sprovvista di regolare permesso che viene rilasciato dalle competenti Autorità. […]
Si fa presente inoltre che diverse abitazioni sono aperte e si presume che siano occupate notte e giorno dagli stessi proprietari.
L´entrata abusiva nella Zona “A” era favorita anche dallo stato in cui si trovavano “le recinzioni in filo spinato in gran parte divelte se non addirittura mancanti”. Per prevenire questo fenomeno il 15 febbraio 1977 il prefetto affidò all´esercito la vigilanza esterna dell´area maggiormente inquinata. Il compito fu assegnato al comando del 3° corpo d´armata, che assunse la completa responsabilità e la direzione della vigilanza della zona insieme ai carabinieri. Questa decisione fu adottata su richiesta di Golfari “ritenuta l´assoluta necessità di vietare qualsiasi abusivo ingresso nella zona anzidetta di persone e autoveicoli” che potevano “diffondere all´esterno gli effetti nocivi delle materie tossiche”.
Il ritorno dell´esercito a Seveso e a Meda per sorvegliare la zona inquinata contribuì ad aumentare la tensione, già alta nella zona a causa dello stallo delle operazioni di bonifica, dell´aumento dei casi di cloracne riscontrati nei bambini e nelle bambine e con la rilevazione della presenza di diossina nelle scuole. Come sottolineò il “Corriere della Sera” l´11 febbraio 1977:
Oltre duecento bambini colpiti da cloracne secondo i dati ufficiali delle prime visite in alcune scuole elementari. Tremilasettecentocinquanta metri cubi di materiale organico contaminato e in putrefazione in attesa di essere bruciato in un inceneritore che è ancora nel mondo delle intenzioni. Un esercito di topi richiamato dai rifiuti e tanta paura, tanto disorientamento in una popolazione colpita da un male a cui finora nessuno ha potuto o voluto dare una dimensione. Questo è il bilancio che si deve tirare a sette mesi esatti dall´incidente di Seveso. Restano fuori dal conto le polemiche, tante e le buone intenzioni, i progetti troppe volte annunciati e non ancora realizzati.
Anche il sindaco di Seveso, Francesco Rocca, fece rilevare la difficoltà del momento:
“Sette mesi vissuti tutti con angoscia, con paura, con la forza dei nervi che ti tiene su e questo, sicuramente, è il momento più brutto. Cosa faccio, adesso? Vado via? Mi sembrerebbe una diserzione. Eppure certe volte la tentazione è forte. La gente è in subbuglio. C´è panico dove prima c´era l´indifferenza, il menefreghismo. C´è anche rabbia. Una grossa, grossissima sfiducia nelle istituzioni.
Pochi giorni dopo il 17 febbraio 1977, in una lunga intervista a Giampaolo Pansa sempre per il “Corriere della Sera”, Rocca ribadì tutta la sua difficoltà nella gestione di una vicenda così complessa, dove i diversi “attori” in campo cercavano di “difendere” le loro ragioni con la forza del loro peso, come la Roche che era “una forza potente” ancora attiva a Seveso. Rocca sospettò, pur senza averne le prove, che le tendenze minimizzatrici sugli effetti della diossina provenissero proprio dalla Givaudan. Il sindaco di Seveso rispose anche in merito al comportamento delle istituzioni evidenziando che queste erano fatte da persone ed erano state sottoposte per mesi ad uno “stress terribile”. Rocca confidò comunque sulla tenuta delle istituzioni, sottolineando però la necessità della creazione a Seveso di un “centro operativo-organizzativo” che coordinasse tutto il lavoro e affrontasse i molteplici aspetti del problema.

Bisogna bonificare: nasce l’Ufficio Speciale per Seveso.

In ambito istituzionale, il 2 giugno 1977, il Consiglio Regionale approvò i 5 programmi operativi per la bonifica del territorio. Il programma operativo numero 1 fu relativo agli accertamenti e ai controlli sull´inquinamento del terreno, delle acque e della vegetazione ed agli interventi di decontaminazione e di bonifica del terreno e degli stabili, “anche per prevenire la diffusione dell´inquinamento”. Il numero 2 interessò gli accertamenti, i controlli, l´assistenza sanitaria e la tutela della salute pubblica nella zona colpita. Esso comprendeva anche gli accertamenti, i controlli e gli interventi nel campo della profilassi medico-veterinaria e dell´assistenza zooiatrica. Il numero 3 invece si doveva occupare di assistenza sociale e scolastica, comprendendo pure “la provvista di alloggi alle popolazioni sfollate”. Il numero 4 comprese il ripristino o la ricostruzione delle strutture civili e delle strutture abitative non recuperabili e la “realizzazione delle opere necessarie per il ristabilimento delle condizioni di vita adeguate alla particolare situazione della zona colpita e delle capacità produttive dei terreni agricoli interessati”. A questo proposito bisogna aggiungere che fino dal febbraio precedente il presidente della Giunta Regionale si era impegnato a dare avvio immediato alle procedure per l´esproprio e la costruzione delle nuove case che avrebbero dovuto essere pronte entro e non oltre il 30 giugno 1979. Golfari rimarcò inoltre che gli oneri inerenti la costruzione delle nuove abitazioni sarebbero stati attribuiti completamente alla Roche-Givaudan. Il programma numero 5 doveva infine coordinare gli interventi a favore di imprese, singole o associate, agricole, artigiane, turistiche ed alberghiere, industriali e commerciali, che avevano subìto danni “in conseguenza dell´inquinamento da sostanze tossiche”. Insieme all´approvazione dei 5 programmi operativi la Regione determinò anche le relative previsioni di spesa che ammontarono a complessive lire 121.635.866.606.
La gestione e l´attuazione dei programmi fu demandata ad un Ufficio Speciale, immediatamente affidato all´avvocato Antonio Spallino che, in qualità di Incaricato Speciale ebbe tutti i poteri che “in forza delle leggi vigenti” competevano “al presidente della Giunta Regionale o alla Giunta stessa, per l´attuazione dei programmi operativi”. Spallino, sindaco democristiano di Como da sette anni, fu scelto, come spiegò Golfari, proprio perché sindaco di una città, cioè abituato a trattare con la gente. “La scelta di un prefetto, aggiunse Golfari, o anche di un manager per la carica di commissario avrebbe potuto presentarsi come la fine di quella politica del consenso che abbiamo sempre seguito per la bonifica a Seveso”. L´avvocato Spallino fu sostituito, nel 1979, dal senatore Luigi Noè.
A livello centrale il 16 giugno 1977 il Parlamento approvò l´istituzione della Commissione parlamentare d´inchiesta sulla fuga delle sostanze tossiche dall´ICMESA che ebbe il compito di accertare le attività della fabbrica di Meda, le responsabilità amministrative relative all´insediamento industriale e le conseguenze dell´incidente sulla salute dei cittadini, sull´ambiente, sul territorio e sull´economia della zona. La Commissione, composta da 15 deputati e da 15 senatori, avrebbe dovuto indicare anche i provvedimenti da adottare “per indennizzare i cittadini danneggiati dall´incidente del 10 luglio 1976 e per ottenere dai responsabili dello stesso il risarcimento dei danni”. A maggio del 1977 inoltre Rocca e Malgrati prorogarono il divieto di coltivazione, allevamento e consumo di prodotti agricoli e animali nelle Zone “B” e “di Rispetto”. Per il Comune di Seveso la proroga fu a “tempo indeterminato”, mentre per Meda, il sindaco limitò il divieto al 31 dicembre 1977.

Le transazioni economiche.

Il 25 marzo 1980, dopo una trattativa iniziata da Golfari e durata oltre un anno, il sottosegretario agli interni Bruno Kessler e il nuovo presidente della Giunta Regionale Guzzetti annunciarono di aver raggiunto un accordo con la Givaudan per far sì che la società di Vernier-Ginevra si assumesse l´onere di pagare la somma di Lire 103 miliardi e 634 milioni per il “disastro di Seveso”. Kessler parlò di “prova di coraggio” illustrando il senso dell´iniziativa, mentre Guzzetti aggiunse che in pratica si era evitato “un contenzioso di anni e anni” e si era “spuntato un risarcimento praticamente pari alle stime del danno”. Gli avvocati Antonini e Palmieri, due dei legali del Collegio della Regione, ricordarono che era la prima volta che si riusciva a far accettare ad una multinazionale di pagare per un danno procurato da una “azienda figlia”. La transazione prevedeva nello specifico un rimborso di 7 miliardi e mezzo allo Stato e 40 miliardi e mezzo alla Regione per le spese di bonifica sostenute nei diversi anni, mentre 47 furono i miliardi a carico della Givaudan per i programmi di bonifica e 23 quelli destinati alla sperimentazione. Guzzetti affermò anche che “per trarre insegnamento dal disastro e dalle sue conseguenze” fu decisa la costituzione di una Fondazione per ricerche ecologiche, alla cui costituzione la Givaudan concorse con il versamento della somma di mezzo miliardo. La Givaudan si impegnò inoltre a conferire alla futura Fondazione gli immobili acquistati (o che stava per acquistare) all´interno della Zona “A”. La transazione escludeva i danni imprevedibili che fossero emersi successivamente e i danni subiti dai privati che la multinazionale elvetica continuò a liquidare tramite il proprio ufficio di Milano. Guzzetti negò che la Regione avesse dovuto cedere qualcosa alla Givaudan anche se i danni calcolati dall´Ente regionale ammontavano a 119 miliardi, perché, per esempio, le fabbriche acquistate per far continuare il lavoro alle imprese, una volta bonificato Seveso, restavano comunque parte del patrimonio degli enti. “Abbiamo voluto in tal modo, concluse Guzzetti, rovesciare in positivo una delle più grandi disgrazie ecologiche della terra e far partire da Seveso un messaggio di speranza perché l´uomo possa in futuro meglio controllare le forze della scienza che egli va trovando”.
La transazione ovviamente fece venire meno il procedimento giudiziario intentato dalla Regione contro l´industria chimica di Meda che era agganciato al procedimento penale avviato dalla Procura della repubblica di Monza all´indomani del disastro. Gli avvocati della Regione sottolinearono, per rispondere alle critiche secondo cui l´accordo avrebbe in qualche modo favorito la Givaudan evitandole un processo, che, se si fosse atteso il procedimento giudiziario, si sarebbe parlato di risarcimento dopo molti anni e con molta difficoltà si sarebbero ottenuti 103 miliardi.
Il giorno seguente, nel dibattito sulla transazione che si tenne in Consiglio Regionale, Guzzetti ricordò che era la prima volta che si riusciva ad ottenere un riconoscimento sostanziale di responsabilità e che, nell´ambito del procedimento giudiziario in corso, con la firma della transazione, la Givaudan ammetteva le proprie responsabilità, assumendosi l´onere di coprire i danni causati dall´ICMESA, il cui capitale sociale di un miliardo era del tutto inadeguato rispetto all´entità dei danni provocati.
Il 30 dicembre 1981 il sindaco di Seveso Giuseppe Cassina, di fronte alle argomentazioni presentate davanti al tribunale di Basilea dalla Hoffman-La Roche che sottolineavano una indisponibilità a transare da parte del Comune di Seveso, replicò alla multinazionale elvetica:

“il punto fondamentale che ci interessa sottoporVi è il seguente: noi eravamo e siamo stati sempre pienamente disposti ad addivenire a delle intese transattive, previo naturalmente i necessari contatti con Voi. In proposito tutti i nostri interventi sono rimasti a tutt´oggi infruttuosi. […] Vi ripetiamo ancora una volta la nostra precedente ed attuale disponibilità a prendere con Voi i contatti necessari per una transazione”.

Il 9 febbraio 1982 l´Hoffman-La Roche, a seguito della nota di Cassina del 30 dicembre 1981, confermò la propria disponibilità a giungere ad un accordo:

“D´altra parte, come risulta dalla corrispondenza scambiata tra i nostri legali, e dalle memorie depositate davanti i tribunali, fin dall´inizio della vertenza non abbiamo mai rifiutato eventuali trattative, pur respingendo decisamente qualsiasi responsabilità della nostra società in relazione alle conseguenze dell´incidente verificatosi il 10 luglio 1976″.

Il successivo 10 settembre il Consiglio Comunale di Seveso approvò il verbale d´intesa con cui la Givaudan “pur contestando la propria legittimazione e responsabilità” si impegnava a versare l´importo di 15.000.000 milioni di franchi svizzeri di cui 1.500.000 a titolo di rimborso delle spese di giustizia e legali.
Come per gli altri enti coinvolti nella vicenda anche il Comune di Seveso, ad avvenuta definizione dell´atto transattivo, assicurò la rinuncia a qualsiasi ulteriore richiesta ed azione, sia in sede penale che in sede civile, salvo richieste per i danni futuri allora non prevedibili, dei quali si doveva però dimostrare il nesso di causalità con l´evento.
Nel suo intervento il sindaco Cassina sottolineò l´importanza della decisione che stava per prendere il Consiglio Comunale perché tale decisione avrebbe assunto “una sua rilevanza storica”, in quanto originata da un evento che aveva visto la popolazione sevesina e il territorio “al centro dell´attenzione mondiale, benché quasi sempre con riflessi non positivi”. Dopo una breve cronistoria degli avvenimenti susseguitisi dal 10 luglio 1976, Cassina sottolineò come non si potevano tralasciare “le gravi responsabilità” che erano state “causa di quelle situazioni” che non potevano esimere il Consiglio “dall´esprimere una ferma condanna dei metodi di gestione di tali impianti e delle esigenze della produzione” che “in quel caso” non avevano tenuto “sufficientemente conto della salvaguardia sia dei lavoratori addetti che delle popolazioni attorno residenti”. Rimaneva la speranza, continuò Cassina, “che di fronte a drammi umani come quello che si era vissuto”, si potesse “acquistare una nuova gerarchia di valore” che mettesse al primo posto l´essere umano “in quanto innanzitutto uomo e non il profitto, l´efficienza, il potere”. Cassina concluse difendendo la bontà della scelta poiché difficilmente si sarebbe potuto ottenere nelle sedi giudiziarie un riconoscimento di danni maggiore della cifra concordata nella transazione.
Tre giorni dopo, il 13 settembre, il sindaco di Seveso e il presidente del Consiglio d´amministrazione della Givaudan Jean Jacques de Pury firmarono a Losanna la transazione.
Nel giro di tre anni dunque la Roche, attraverso la Givaudan, chiuse i contenziosi aperti con tutte le autorità italiane interessate dalla fuoriuscita della nube tossica e, nel contempo, tramite il proprio ufficio insediato a Milano, liquidò oltre 7000 pratiche con i pagamenti effettuati direttamente ai privati, con un onere complessivo a carico della multinazionale di Basilea di oltre 200 miliardi di lire.

1983. Nasce il Bosco delle Querce.

Il 2 giugno 1977 il Consiglio Regionale della Lombardia approvò i 5 programmi di intervento per bonificare il territorio inquinato. La realizzazione fu affidata all´Ufficio Speciale per Seveso. Abbandonata l´idea di costruire un forno inceneritore per eliminare il materiale inquinato, tra il 1981 e il 1984, furono costruite due vasche impermeabilizzate dove depositare il materiale contaminato. La capacità della vasca di Seveso è di 200.000 m³, mentre la capacità di quella di Meda è di 80.000 m³.
Per la messa in sicurezza del materiale contaminato è stato adottato un sistema di quattro barriere successive, che separano l´inquinante dall´ambiente esterno. Le vasche sono dotate di una serie di strumenti di controllo che verificano eventuali perdite, garantendo la salvaguardia del luogo. Gran parte del materiale inquinato è rappresentato dal terreno di superficie che fu tolto dall´intero territorio della Zona “A” fino ad una profondità di 46 centimetri. Sono contenuti, all´interno della vasca di Seveso, i resti delle case, gli oggetti personali, gli animali morti o successivamente abbattuti a seguito dell´incidente (furono più di 80.000 gli animali morti o abbattuti) e parte delle attrezzature utilizzate per la bonifica. La terra che oggi costituisce lo strato superficiale del bosco proviene da altre zone della Lombardia.
Nel 1983 si decise di progettare, in quella che era la Zona “A” (“A1″-”A5″), un parco, il futuro Bosco delle Querce. I lavori ambientali e forestali iniziarono nel 1984 e terminarono nel 1986. Alla fine del 1986 la cura del parco fu affidata all´Azienda Regionale delle Foreste (ARF). Inizialmente vennero messe a dimora 5.000 piante arboree e piantati 6.000 arbusti. Grazie agli ulteriori interventi e alla cura dell´Azienda Regionale Foreste alla fine del 1998 il parco comprendeva 21.753 piante arboree e 23.898 piante arbustive ossia un patrimonio quadruplo rispetto all´impianto iniziale ereditato dall´Ufficio Speciale per Seveso.
La scelta di realizzare un bosco dopo l´asportazione del terreno si deve anche ai movimenti popolari che sorsero a Seveso dopo l´incidente e che si opposero con forza alla decisione iniziale della Regione Lombardia di costruire un forno inceneritore per bruciare tutto il materiale inquinato.

Fonte:

https://www.corvelva.it/it/approfondimenti/sistema-sanita/case-farmaceutiche/la-roche-e-la-sua-schiacciante-responsabilita-nel-disastro-di-seveso.html

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